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Fidelity Card: Rassegna stampa


Gazzetta del Sud

La lucidità registica che rifugge le virate verso il pietismo in “Fidelity card”

Giusi Arimatea - TGME

Una struttura che potrebbe essere tranquillamente casa o gabbia. Un giovane che sul balcone si agita, coordinando a fatica i movimenti ma ben articolando le parole. Ché non sempre il corpo e la mente procedono di pari passo. Giù la madre, che alla disabilità del figlio non s’è mai rassegnata e che pertanto chiede continuamente la grazia alla “Madunnuzza”, raccogliendo punti in quella Fidelity card che dovrebbe assicurarle la benevolenza del cielo. E sono sogni sopra e sotto. Darex indossa la maglia numero 11 della nazionale e immagina di calciare il rigore decisivo, o tuttalpiù di lasciare questo brutto mondo alla maniera dei grandi campioni della Formula 1. La donna attende quel miracolo in grado di restituire la normalità al figlio. Ma qual è la normalità? E chi si arroga il diritto di segnarne il limite? Chi, nella diversità comune a tutti ha etichettato solo pochi? Dal balcone Darex vede il lungomare. E vede chi vi passeggia, chi possibilmente non si è mai posto il problema della diversità, chi addirittura occupa lo spazio riservato alla sua auto. Vede i suoi fratelli, normali. Vede molto di ciò che a lui è stato negato. La rassegnazione dapprima sembra non appartenergli. Lui che si arrabbia, che pure bestemmierebbe se la madre non gli impedisse di completare le frasi. Lui che quasi odia, e di un umanissimo odio, la normalità degli altri.

Uno dei pregi della garbata drammaturgia di Nella Tirante e dell’altrettanto garbata regia di Roberto Zorn Bonaventura è l’assenza di quel falso buonismo che troppo spesso genera la disabilità. Qui, invece, la crudezza di Darex, del quale Gianmarco Arcadipane restituisce sulla scena ogni singola sfumatura, è destinata finanche a impattare con la snervante e quella sì posticcia mansuetudine della madre, ella stessa incapace di arrendersi alla realtà. Imbastire uno spettacolo sulla disabilità richiede coraggio, ma richiede soprattutto quella lucidità registica che rifugga le virate verso il pietismo e al contempo delicatamente si àncori ai fondali della realtà meno adulterata. Questo è riuscito a Bonaventura, cui del resto si riconosce la capacità di sfrondare del superfluo la scrittura e di curare la messa in scena senza troppo ingioiellarla. “Fidelity card” ha tutta l’aria d’essere un’istantanea sull’uomo, ancor prima che sul disabile. Tanto risultano universali, non recando tracce visibili di diversità, i personali drammi di Darex e della madre. Come a voler sussurrare, ed è un effetto bellissimo, che disabili siamo tutti; senza eccezione votati alla sofferenza; santi e martiri insieme, in un universo che è solo terra e quasi mai cielo. Quando Darex Durante inventaria gli interventi che ha subìto parallelamente gioca la sua partita nella nazionale dei suoi desideri. Nel fantacalcio però puoi permetterti di scegliere, nella vita mai. Questa l’amarezza che ne deriva e che supera i confini della disabilità per accomunare tutto il genere umano.

Il pregio maggiore di “Fidelity Card”, vincitore al Festival I Teatri del Sacro 2017, è quello di aver mirato più all’accettazione di sé come individuo che non alla rassegnazione del disabile innanzi al destino messosi beffardamente di sbieco. È altresì l’inno, quanto si voglia triste, alla vita di chi al niente antepone novantanove anni di esistenza a guardare il lungomare, o a sognare. Darex è guida di sé, a differenza della madre che si muove lungo le direttrici segnate da Radio Santissima. Darex è fondamentalmente libero nel suo corpo malandato, più libero di chi non vive, sperando nel miracolo. Il primo nemico dell’uomo è l’uomo. Solo dopo ci sono i santoni, poi ancora il demonio. E per Darex, si badi bene, El diablo è solo una delle sue canzoni preferite. Darex sa essere persino cinico quando si trova al cospetto di Dio e parla a un uomo da uomo. Il suo Dio illude. Ma il suo Dio è obiettivamente un grande campione, uno che resta, che non scappa. Darex non si aggrappa alla speranza del miracolo, semmai si nutre dei sogni per affrontare la realtà. Ha un Super Tele da adoperare e sempre un nuovo rigore da calciare, per chiudere la partita. Alla madre, quando non ne può più, rimprovera d’aver avuto sempre fede nei santi e mai in lui. L’urlo della ragione contro la superstizione di quell’universo popolare che i costumi e la scenografia di Cinzia Muscolino hanno magistralmente riprodotto sulla scena, con una cura estrema del particolare nella più generale barocca pomposità del sacro.

Quando Darex si appresta semplicemente a vivere non v’è disabilità che possa impedirgli di volare. Basta crederci. Che poi tutto sarà più o meno facile, più o meno sopportabile, più o meno brutto, conta tuttavia provare a passeggiare sul lungomare e lì, tra la folla, sentirsi unici. Non diversi, unici. “Il Cortile – Teatro Festival”, organizzato dall’associazione “Il Castello di Sancio Panza”, con la direzione artistica di Roberto Zorn Bonaventura e la collaborazione di Giuseppe Giamboi, continua a riscuotere grande successo e pure in occasione dello spettacolo “Fidelity card” registra il tutto esaurito.

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Il Cortile: Fidelity Card, non è mai stato così difficile fare goal

Clarissa Comunale - MessinaOra

Messina è un grande lungomare. Potrebbe essere ammirata da sud a nord e viceversa lungo tutta la sua costa, con il vento favorevole e controvento, tra le correnti che si scontrano, i pescherecci, le spiagge e il sapore del mare. Quel lungomare per molti messinesi è infanzia, primi amori, promesse e bugie. Quel lungomare è libertà.

Darex non ha ragioni per aspettare e deve andare a vedere cosa c’è oltre la gabbia dell’indifferenza e della miseria sociale che, perfino entro le mura di casa, lo relegano alla “diversità”, al suo essere “speciale” e comunemente disabile. Commovente e delicato è Fidelity Card, terzo appuntamento del Cortile Teatro Festival che si è tenuto ieri sera al Cortile Calapaj-D’Alcontres, di e con Nella Tirante nel ruolo della madre di Darex, magistralmente interpretato da Gianmarco Arcadipane, per la regia di Roberto Zorn Bonaventura, scene di Cinzia Muscolino.

Fidelity Card, vincitore del premio “Teatri del Sacro” 2017, racconta la storia di Darex, appassionato di calcio e fumetti a sfondo politico “coloratissimi”, fan dei Litfiba, ateo, affetto da neuroblastoma, che lo costringe a sottoporsi a tre interventi sferrando tre goal vincenti nella sua partita contro la malattia. Primo intervento al midollo ad appena due mesi di vita, secondo intervento al fianco destro a cui segue ciclo chemioterapico, terzo intervento alla schiena ad 11 anni. Nessun campione riesce a portare in alto la squadra come Darex: i grandi Platini, Pelè, Messi, Zidane, Cannavaro, chi sono in confronto a chi è esposto completamente in attacco ed è pronto a lanciare il pallone in rete? Nessun miracolo, nessuna speranza, nessuna illusione è leggibile negli occhi di Darex che, invece, urlano richieste di normalità, di autonomia, di assoluta libertà. È la madre (Nella Tirante) l’anello che spezza e lega allo stesso tempo la vita di Darex. Il morboso e disturbante fanatismo, la costante ricerca di rassicurazione divina, fino all’infantile “raccolta punti” per ricevere un miracolo mariano, rendono la madre di Darex estremamente attenta alle vicende dell’ultraterreno, a cui unicamente si affida, nel fugace tentativo di difendere la sua fede, evitando il male, il peccato e la bestemmia.

Diventa poi una questione di linguaggio, l’imprecazione e l’insulto, le facili etichette che cancellano qualsiasi tutela, qualsiasi diritto per Darex, usurpato anche del parcheggio a lui dedicato. È nel silenzioso colloquio/monologo con Gesù Cristo che Darex esprime il desiderio di correre insieme al mondo che freneticamente va avanti, correre per il campo di gioco, correre fino al lungomare: “Non devo stare in panchina, devo giocare. Io ti ammiro Gesù, sei un campione, ci vediamo in campo”. Darex si libera dalla sua gabbia e lotta per la sua partita decisiva, quella contro il pregiudizio, quella per libertà, quella per l’amore, quell’amore provato per la prima volta proprio per sua madre, che è Tutto e che deve accettare e avere fede per quel figlio così diverso dagli altri. Ma diverso per chi? Per gli stupidi che ancora non hanno capito dove siamo, come e perché viviamo. “Preferirei essere chiamato Unico e ora ho deciso di andare sul lungomare”, dove finalmente sa di poter volare. Nessuna disabilità, ma l’abilità di essere unici, irripetibili così come ogni essere umano su ogni porzione di questa terra.

Standing ovation meritata, un pubblico commosso, tra cui in prima fila il sindaco Cateno De Luca, ha pienamente promosso Fidelity Card in un Festival che finora non ha sbagliato un colpo, anche nella formula enogastronomica curata dal ristorante ‘A Cucchiara.

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Eppure non basta una “Fidelity card"...

Paolo Randazzo - Rumor(s)cena

MESSINA – Che cosa è normale, che cosa anormale? chi è abile? chi disabile? Chi è diverso da chi? La maggioranza è davvero un criterio utile per capire la realtà delle persone? Perché la diversità ci fa paura? Come facciamo a dare un senso al dolore quando è evidente che esso non ha senso e, soprattutto, quando questo dolore capita proprio a noi? Basta una fede? Basta ancora, come forse è bastata per millenni, la fede cristiana? E che cosa è, in ultima istanza, una fede di fronte alla durezza della realtà? Sono domande antichissime, profonde e forse, al contempo, anche domande di una banalità sconcertante se da esse si scrosta il peso di millenni di cultura o se ci si sofferma un attimo a pensare che, in fondo, non ci si sono mai stati sulla terra due uomini uguali. Eppure quante tragedie, quanto dolore, quante sofferenze, quante follie violente ha provocato il discrimine di queste domande; quanto ci sentiamo protetti dentro a ogni minima forma di omogeneità fisica, sociale, culturale, quanto ci rassicura ogni minima forma di “normalità”; quanto possiamo diventare feroci quando questa normalità viene revocata o appena messa in discussione.

È quanto vien fatto di pensare riflettendo sullo spettacolo “Fidelity Card”, della compagnia “Cosa sono le nuvole?”, scritto da Nella Tirante, diretto da Roberto Bonaventura, interpretato da Nella Tirante e da Gian Marco Arcadipane e vincitore del premio “Teatri del sacro 2017”, visto al “Clan degli attori” di Messina. Una madre implora un miracolo per il suo piccolo, per il suo ragazzo, per il suo atleta e campione, un miracolo di normalità: quasi lo pretende quel miracolo, lo pretende scommettendo tutto su una specie di raccolta punti/fede (una fidelity card, appunto) che, alla fine, dovrà portare necessariamente al miracolo desiderato, ovvero alla normalità del suo adorato Darex, il figlio disabile che, ormai grande, scalpita per uscire di casa, per giocare la sua partita, per vivere la sua passione per il calcio e una vita degna di chiamarsi tale. Questa è la sua fede, nel desiderio di questo miracolo essa trova la sua radice, il suo respiro, la sua possibile verità ma verso la fine dello spettacolo la situazione si ribalta e il miracolo vero, quello grande, l’unico possibile si palesa. Non c’è da invocare, chiedere, pretendere alcuna normalità per Darex, non ci sono santi e santini da scongiurare, c’è solo da aver fede nella sua assoluta, umanissima, straordinaria, miracolosa unicità di persona. L’unica fede che abbia un senso profondo e autentico, anche religioso, e che può darlo alla nostra vita insieme con gli altri, può darlo al mistero irriducibile e gioioso della presenza dell’alterità (e del dolore) nella nostra vita.

E tuttavia questa finitezza concettuale, questo lieto fine, seppur s’incarnino nelle prove attorali di Tirante e Arcadipane che, senza cadere nel patetico (ma in qualche segmento sì), sono convincenti per misura, intensità e autenticità emotiva, possono in qualche modo sorprendere negativamente per la rapidità con cui il dolore per la diversità si ribalta in gioia e accettazione della diversità come ricchezza e risorsa. Si tratta certo di un cambiamento drammaturgicamente motivato nell’economia dello spettacolo ma, forse, eccessivamente rapido, veloce al punto da apparire quasi automatico e, seppur concettualmente condivisibile, forse un po’ troppo vicino ad una rassicurante e politicamente corretta vulgata contemporanea. Una vulgata che, a parole, tutti condividono ma che assai difficilmente può entrare in un lavoro d’arte senza apparire consolatorio e sostanzialmente in deficit di verità.

Visto al Clan degli attori” di Messina il 18 Novembre 2017

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Fidelity Card. Il sorriso degli innocenti

Domenico Colosi - Paneacquaculture

Innanzitutto il sorriso di Nella Tirante: il massimo sforzo per l’opera di una vita, monumento autobiografico che vuol farsi esame di coscienza collettivo. O semplice invocazione a dei e santi, Lari e Penati vari.

Fidelity Card scherza con la religione do it yourself con toni tra il calendario di Frate Indovino e 2666 di Bolaño, impresa titanica per condensare in un’ora di palcoscenico le lacrime di una vita, le ore di attesa prima di una visita in ospedale, i pomeriggi spesi al balcone osservando la vita altrui. Un ragazzo disabile dalla nascita (Gianmarco Arcadipane) e una madre in attesa di un miracolo (la stessa Tirante) sono gli ingredienti base per la classica melassa dai buoni sentimenti. L’ispirazione, tuttavia, salva lo spettacolo dalle banalità della premessa: il sorriso della protagonista, esaltato in apertura, accompagna lo spettatore verso i circuiti meno battuti di una religiosità popolare solo fintamente kitsch. Come un meridionale devoto alla radiosa Santa Edwige in luogo del consunto Padre Pio.

La furia onnicomprensiva della madre sfocia dunque in un morbido neopaganesimo, culla rassicurante in una comprensibile fase di smarrimento emotivo (e giù con i santi, i santoni, i predicatori e i taumaturghi). Così, mentre il ragazzo dà fondo ad una logorrea incessante sugli amati campioni dello sport, i culti privati della donna accarezzano l’idea di una religione plagiata dalla competizione neoliberista, pura appendice di un marketing proletario da raccolta punti del benzinaio. Nell’angoscioso finale, tuttavia, un eccesso di moralismo distrugge dalle fondamenta le preziose scelte drammaturgiche della Tirante: nessuna ambiguità risolutrice, ma la solita brodaglia emotiva sull’eccezionalità della vita. La voce del cuore che, in pochi minuti, umilia le ragioni dell’arte. Tra gran sventolar di fazzoletti, chiaramente. Al centro del palco la gabbia-letto-prigione-balcone ideata dalla scenografa Cinzia Muscolino premia l’ambizione del regista Roberto Bonaventura verso quella compattezza formale che da sempre contraddistingue i suoi lavori, una densità già apprezzata in quell’Uomo a metà che molto ha in comune – per tematiche e vocazione – con il lavoro della Tirante. Scialbi i costumi (una divisa da album ingiallito della nonna accanto a una proiezione in 3D di un calciatore da videogioco), per tacer delle scarpe.

Lo spettacolo, vincitore all’ultima edizione del festival Teatri del Sacro, vive tutto sul contrasto emozionale tra la calma apparente di una Tirante con smorfia giocondesca e l’iperattività di Arcadipane, leone in gabbia per una malattia che, almeno per tre quarti di spettacolo, trova la sua dignità di racconto. Poi il finale – quasi grottesco nel suo spicciolo didascalismo – a segnare un solco tra l’onestà degli intenti e un applauso convinto.

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Una condizione che non impedisce di “volare”

Alessia Vanaria - Il Cittadino di Messina

“Disabile”: una parola del nostro vocabolario, una come tante altre che siamo abituati a pronunciare quotidianamente. La usiamo per indicare la specifica condizione di chi è speciale, di chi si trova a vivere in uno stato che sicuramente non ha scelto. La usiamo, talvolta, nei nostri discorsi perbenisti nel momento in cui vogliamo ricordare ad altri il rispetto del disabile ma magari siamo gli stessi che qualche minuto prima hanno parcheggiato nello stallo appositamente riservato. Siamo i primi a non riconoscere e rispettare la disabilità, siamo i primi a non chiederci nemmeno quale reazione quella parola possa generare nella mente di un “essere speciale”. E il giovane protagonista della pièce “Fidelity card” di Nella Tirante per la regia di Roberto Bonaventura in scena fino a domani al Clan Off Teatro, ci invita a farlo. Egli non tollera di essere additato come “disabile”, di ricevere quest’etichetta che sottolinea la sua diversità da un mondo che finge di accettarlo. Un mondo che, nonostante tutto, non smette di osservare dal suo balcone. Osserva il lungomare, quel luogo in cui i passanti si affollano nelle sere d’estate, quel luogo dove la vita scorre attimo dopo attimo in piena “normalità”. Quella “normalità” che per lui affetto da disabilità motoria, non è sterile routine ma sogno irraggiungibile, traguardo da tagliare, goal da segnare. Un goal difficile, però, per uno che il destino ha relegato in panchina. D. la sua partita non la può giocare, può solo guardare gli altri giocare la propria. Guarda i passanti, i suoi fratelli perfetti, e sua madre che trascorre le sue ore chiusa in casa, giorno e notte, a pregare per il miracolo. Invoca la Vergine perché abbia pietà del suo figlio e gli doni quella “normalità” di cui è stato privato.

Quella “normalità” deve giungere, quel miracolo deve accadere perché è normale che sia così, deve essere premiata per la sua “fidelity card”. Ha vissuto sempre accanto al figlio ogni istante, pronta a rimproverarlo per i suoi atteggiamenti e gesti sbagliati, ha sempre avuto fede. La sua, però, è una fede vuota, fine a se stessa, riposta in Dio ma non nella persona che ha davanti. Non crede in D. così come è, ma spera sempre in ciò che non è, nell’acquisizione per lui di una normalità che non si verificherà mai. Non accetta la condizione di suo figlio e impedisce anche a lui di poterlo fare. E sarà D. stesso ad insegnare, ad “educare” la madre all’accettazione della sua disabilità. La sua non è una realtà che ha scelto ma nonostante ciò deve imparare a conviverci. Una condizione che non gli impedisce, però, di ricercare la “normalità” sul lungomare, di vivere, di “volare” nel cielo del domani, di tagliare traguardi e di segnare grandi goal in partite decisive. L’importante è che ci sia qualcuno che creda in lui, che sia al suo fianco in successi e fallimenti. Una pièce che, come poche, riesce ad affrontare un tema quanto mai delicato come quello della disabilità. Per farlo non ricorre a stereotipi ma analizza la realtà nel profondo senza tralasciare alcun dettaglio. Dal testo di Nella Tirante ricco di dialoghi e monologhi estremamente efficaci nel raccontare una storia fatta di timore e di apprensione, ai gesti, ai movimenti naturali e per nulla finti o esagerati di GianMarco Arcadipane, semplicemente straordinario nell’interpretazione del giovane D. Al grande testo e all’incommensurabile bravura degli attori, Arcadipane e Tirante, si è unita una resa scenica per nulla banale ma estremamente curata. Dalla struttura con balcone superiore e casetta sottostante ideata da Cinzia Muscolino, alle scelte di regia, come quella del segnale stradale che cambia “forma” durante il racconto teatrale, curate da Roberto Bonaventura e dall’aiuto regia Michelangelo Maria Zanghì, alle luci e ai suoni perfettamente adatti ad ogni momento scenico.

Non è mancato nulla, senza dubbio, in uno spettacolo che ricorda a tutti il grande potere del teatro, invitando a riflettere su un tema di cui si parla spesso ma il più delle volte in maniera inopportuna. Si parla di rispetto di una disabilità che il più delle volte non si è capaci di accettare e non solo al di fuori delle mura domestiche. Ecco che entra in gioco il ruolo del genitore, che è chiamato ad esercitare ciò che va oltre ogni responsabilità, ciò che pensava di non dover mai essere chiamato a fare. E' chiamato a giocare una partita decisiva e a farlo da attaccante e non da semplice difensore. E' chiamato a far scendere in campo il figlio, a non relegarlo in panchina per paure o timori. Ha anche lui, nonostante tutto, la sua partita da giocare e ha il diritto di poterlo fare al meglio, segnando numerosi goal e ricevendo l’acclamazione del suo pubblico. Ha anche lui il diritto di vincere, di volare nel cielo del domani.

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Una salvezza possibile per i teatri dello Stretto?

Vincenza Di Vita - A Teatro

Fidelity card scritto e interpretato da Nella Tirante con Gianmarco Arcadipane, ben diretto da Bonaventura, con dialoghi ritmicamente rigorosi, è andato in scena al Clan Off il 18 e 19 novembre. Lo spettacolo, vincitore de I Teatri del Sacro 2017, è prodotto dalla Compagnia Che Cosa Sono Le Nuvole, fondata nel 2006 a Nizza di Sicilia, in provincia di Messina. La compagnia, oltre a essersi già aggiudicata il premio della giuria de I Teatri del Sacro con Hermanos nel 2011 e con Euphoria nel 2009, è nota per avere organizzato nel 2007 l’evento-spettacolo diretto da Luciano Melchionna Dignità autonome di prostituzione, riscuotendo grande risonanza mediatica e numerosi riconoscimenti tra i quali segnaliamo il Golden Graal per il Teatro nel 2008. Scene e costumi di Cinzia Muscolino sono pertinenti e affatto assimilabili ad altre operazioni dell’artista, nota per i lavori di Pubblico Incanto e per le scene dei Carullo Minasi, vincitori del Premio della Critica ANCT 2017. Lo spettacolo tiene con il fiato sospeso gli spettatori in un gioco che punta all’acquisizione di punti per ottenere una “fidelity card” che conceda alla madre protagonista la guarigione del figlio Darex, letteralmente “ingabbiato” nel balcone di casa: l’ironico concorso è basato su una esasperata fiducia del cattolicesimo, sottolineata dagli abiti pacchiani della protagonista, ricoperta da immagini di santi ed ex voto intorno alla vita e sulle pareti della sua gabbia-altare, dove ascolta una radio dall’accento sudamericano che fa il verso alla più nota Radio Maria. La madre (Nella Tirante) è arbitro nella partita di Darex contro un neuroblastoma: fischia e segna il punteggio su un tabellone in proscenio, all’occorrenza diventa un segnale verticale che ora indica un parcheggio riservato ai disabili, ora segnala la vicinanza a quel lungomare tanto ambito da Darex. La storia trae spunto da una vicenda reale e più volte raggiunge intensità rara e autorevole verità, seppure mascherata da grande ironia.

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